lunedì 13 dicembre 2021

Una mille lire per la vigilia di Natale



Presi la lista della spesa, la piegai per bene e la misi nella tasca più ampia del mio cappotto.
Sistemai i miei capelli allo specchio e allacciai per bene le scarpe.
Mia madre era inginocchiata a sistemare il giubbino ad Anna. 
La sciarpa era piena di brillantini, proprio come piaceva a lei, bimba di 3 anni fissata con le cose "sbrilluccicose".

"Fatto", esclamò rialzandosi.
"Mi raccomando, dritto al supermercato e poi a casa."
La fissò per un momento e poi continuò "Tienile la mano, specialmente sulla strada dietro la chiesa. Li c'è vento, e le macchine passano velocemente".
Annuì, annoiato dalle solite raccomandazioni.
Presi i soldi, li misi nella tasca anteriore dei jeans e uscì di casa.
Via Municipio era stata addobbata a festa dalla Fidas, l'associazione dei donatori di sangue.
Il freddo pungente del 24 Dicembre  1996 era qualcosa che oggi definiremmo straordinario.
Camminavo a passi lenti, rispettando i piccoli passi di quella piccola biondo/castano con le scarpette lucide.
Arrivati in cima alla salita ci si parò di fronte Piazza Vittorio Emanuele.
Un piccolo gioiello adornata a festa per il Natale.
A sinistra il Bar Centrale, dritto la strada che portava al supermercato. Una strada stretta che fiancheggiava a destra  la maestosa chiesa dell'Addolorata.
"NONNO" esclamò Anna.
Mi lasciò la mano, e corse verso di lui.
Nonno Rocco era fuori dal bar, che parlava come suo solito con gli amici.
La prese in braccio, baciandola e stringendola forte.
Lei stretta al suo collo, come se non lo vedesse da chissà quanto.
"Dove state andando con questo freddo?" mi chiese.
"Al supermercato, perché la mamma ha dimenticato alcune cose".
Fece scendere Anna per terra, mise la mano nella tasca e tirò fuori duemila lire.
Mille a me, mille a mia sorella.
Sorrise esclamando "Comprate qualcosa anche per voi".
Lo abbracciammo insieme, ringraziandolo.
Partimmo alla volta del supermercato.
Man mano che ci avvicinammo alla strada che costeggiava la chiesa il vento aumentò.
Anna era visibilmente in difficoltà, così la presi in braccio, tendando di proteggerla quanto più potevo.
Arrivati sulla soglia del supermercato, la feci scendere.
Fu li che cominciò la "tragedia".
"La mia mille lire" esclamò.
Aprì le mani, e vidi che non aveva nulla. 
Guardai nelle sue tasche più e più volte. La mille lire era scomparsa.
Cominciò a guardarmi piangendo.
Tornammo indietro, rifacendo il percorso e sperando di trovarla.
Il vento dava poche speranze, e man mano diventava sempre più pungente.
Dopo aver rifatto il percorso diverse volte, decisi di fermare le ricerche. 
Era inutile. Probabilmente i soldi erano volati via chissà dove.
Anna era disperata. "Voglio l'ovetto", continuava a ripetere.
Entrammo nel supermercato e cominciai a prendere quelle poche cose scritte nella lista.
Mamma conosceva i prezzi dei singoli prodotti, e per evitare che perdessi eventuale resto mi aveva dato il costo esatto della spesa. 
Non avevo quindi spazi di manovra per poter prendere l'ovetto.
Anna non fece i capricci. Era "solo" in lacrime.
Cercavo di consolarla. Magari mamma ci avrebbe dato i soldi per tornare a prendere l'ovetto.
Io intanto avevo adocchiato in cassa i Kinder Cereali. Costavano cinquecento lire l'uno.
"Con mille lire ne prendo due" pensai, pregustando quel momento.
Avevo però Anna che piangeva, ora disperata.
I suoi lacrimoni erano così grandi che scendendo cominciarono a bagnare in modo vistoso la sciarpa.

Mentre eravamo in fila per la cassa, la fissai.
Mi si strinse il cuore. Probabilmente fu la prima volta che pensai "non posso".
Avevo già poggiato i Kinder Cereali sulla cassa. Li fissai, e con gesto veloce li riposi.
Presi l'ovetto e lo passai a lei.
Si fermò di colpo. Mi guardò dapprima incredula, poi sorridente.
Presi un fazzoletto , e gli asciugai il viso.
Imbustai i prodotti, e prendendole la mano esclamai "Non far volare anche questo".
Lei annui e lo mise per sicurezza insieme alla spesa.
Mentre tornavamo a casa saltellava felice.
Io avevo in tasca delle goleador, ricavate dal resto di quelle mille lire.
L'ovetto, nel 1996, costava 800 lire. Le goleador solo 50 lire.
Fu la prima volta che "sacrificai" un mio desiderio per lei.
Apparentemente non un grande sforzo. Erano pur sempre mille lire.
Quel giorno però scattò in me qualcosa che, negli anni, si è rafforzato.
Avevo 10 anni, una sorella di 3 e un 'anima che andava via via costruendosi.
La vigilia fu salva, un ovetto scartato e una mille lire in volo chissà dove.



sabato 11 settembre 2021

Silenzio autistico - Arriva Leonardo (Ottava Parte)



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L’imprevedibile è sempre dietro l’angolo.

Ogni genitore con un figlio autistico lo sa bene.
Una delle cose più ansiogene e assurde è sempre stato “il seguito”.
Ovviamente non parlo della gestione dell’autismo.
Quella è difficoltosa e ansiogena a priori. Con il tempo infatti impari a gestire il tutto, e a trovare una sorta di equilibrio che in qualche modo ti permette di vivere, o nel peggiore dei casi “sopravvivere”.
“Il seguito” è tutto ciò che scaturisce dopo il primo figlio.
Nel nostro caso Daniel è il primogenito.
Anna e Marco hanno dedicato i primi 5 anni di Daniel a comprendere, equilibrare, capire.
Entrambi hanno assimilato tante cose, tra le crisi isteriche, i pianti e i continui passi indietro dopo alcuni successi che facevano ben sperare.
Daniel non poteva restare solo. Mia sorella e mio cognato sentivano il bisogno di diventare nuovamente genitori, e donare a Daniel un fratellino.
Un fratellino con cui condividere tutto.
Questo “tutto” però pesava come un macigno.
Per quanto ci si possa sforzare, sai benissimo che il futuro fratellino/sorellina avrà sulla schiena una responsabilità enorme.
Nonostante tutto, la responsabilità di un fratello disabile ricade quasi sempre in modo verticale sui fratelli.
Che a dirlo così sempre brutto, anche egoista. Ma in realtà fa parte del ciclo della vita.
Io ho badato a mia sorella, nonostante la mia tenera età. E avrei continuato a farlo, se mai avesse avuto qualsiasi tipo di problema.
E lo farei ancora. Perché così mi è stato insegnato, e perché così la mia anima sente di dover fare.
E’ un sentimento innato.
Qualcuno ha anche detto “Un fratellino solo per tenerlo al sicuro quando non ci sarete più”.
E boom, un colpo allo stomaco tremendo.
Quando non ci sarò più. Una frase che stimola tutta una serie di ansie, di domande tremende, di voragini infinite senza speranza di toccare mai il fondo.
I genitori di un bambino autistico hanno già un carico emotivo così pesante da essere costantemente sull’orlo di cedere.
Accennare anche solo a simili argomenti, li logora e li distrugge ancora di più.
A te, che stai leggendo, ricordati di evitare simili argomenti.
Noi parenti, genitori e nonni lo sappiamo benissimo.
Conosciamo l’incognita del “Dopo di noi”.
Ripeterlo però è come pugnalarci. Contribuisci solo ad imbrunire l’anima.
Un consiglio… EVITA.
Comunque no, non si sceglie di mettere al mondo un secondo figlio perché badi al primo.
Come in una qualsiasi famiglia, si sceglie di donare la vita ad un bambino perché lo si vuole.
Si spera, semmai, che questo possa amare così tanto suo fratello/sorella , da poterlo aiutare ogni qualvolta ne abbia bisogno.
Ma questo è ciò che spera chiunque, giusto?
La stessa cosa vale anche per le persone neurotipiche.

Lo sapevi che per indicare una persona non autistica si utilizza il termine Neurotipico?

Non “Normale” , ne altri termini.
E’ importante , per noi come per chiunque ascolti, utilizzare i termini giusti.
Non che sia un tabù la parola disabile.
Lo sappiamo, ne siamo ben consci. Ma è importante dosare le parole, utilizzare quelle giuste.

Si spera sempre che un fratellino/sorellina possano essere il sostegno l’uno dell’altro in caso di bisogno.

Ebbi modo di parlare molto a lungo, con mia sorella.
Era il suo tarlo principale. Secondo lei sarebbe stato come caricare sulla schiena del nascituro un “fardello” troppo grande.
Con il tempo gli feci capire che avere un fratello/sorella è comunque un impegno costante, indipendentemente dal suo status.
Forse in tempi passati, con le famiglie numerose, l’idea di fratello e sorella era molto spesso “annacquata” dalla differenza d’età e dal numero consistente di persone.
Con conflitti dati da tutta una serie di cose e problemi, spesso futili, amplificate dal tempo e dalla distanza.
Tra la fine di  Ottobre e gli inizi di Novembre 2017  mia sorella annunciò a me e ai miei di essere incinta.
La brutta notizia era però che da lì a poco sarei partito per Torino.
Ciò che mi spaventava, all’epoca,  era soprattutto la mia assenza fisica.
A 1200 km di distanza non avrebbe avuto il medesimo supporto che invece le avevo dato durante e dopo la gravidanza di Daniel.
Ma non era il solo “problema”.
C’era la statistica, il caso, le paure e quel cazzo di destino imprevedibile.

giovedì 9 settembre 2021

Silenzio autistico (Settima Parte)




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Non è facile scegliere un libro da leggere.

Quando si sceglie una nuova avventura in genere si evidenzia il genere, si leggono diverse sinossi e poi ci si butta a capofitto.
La mia sinossi la conoscevo bene, il genere era chiaro.
Mi mancava tutto il resto, tra cui il coraggio di immergermi in un mondo sino ad allora completamente sconosciuto.
Timidamente mi “intrufolai” in alcuni forum che trattavano l’argomento.
Erano dei forum che ora non esistono più, popolati da persone come me e da medici professionisti al servizio di chi “navigava a vista”.
Un servizio completamente gratuito, che mirava a dipanare i dubbi iniziali di chiunque abbia ricevuto una diagnosi di Autismo.
Uno di loro mise a disposizione un manuale teorico sul disturbo dello spettro autistico.
Era un pdf di 360 pagine, da leggere in modo attento e razionale.
Lo scaricai, e lo misi immediatamente in memoria. Così da leggerlo appena possibile sul pc.
In un post in cui si parlava di possibili romanzi sul tema, ne chiesi uno in cui venivano raccontate esperienze diverse. Non sapevo ancora come spiegare quel “diverse”.
Un medico riprese il mio intervento, e mi consigliò “Il bambino che parlava con la luce” di Maurizio Arduino.
Lo cercai subito su Amazon.

“Silvio guarda il mondo racchiuso in un granello di polvere, Cecilia lo osserva attraverso il movimento di una corda. Matteo non gioca con gli altri bambini, ma conosce le radici quadrate. Elia, sommerso da voci, odori, suoni e colori, lotta per trovare la calma interiore. Un viaggio unico e commovente nelle vite di quattro pazienti autistici profondamente diversi fra loro, seguiti dall'infanzia all'età adulta. I drammi e le fatiche quotidiane delle loro famiglie. L'impegno, i dubbi, gli errori e i piccoli grandi successi compiuti nel tentativo di aiutarli.”


In preda ad una crisi di pianto impulsiva, lo ordinai senza batter ciglio.
Chiusi il pc, e andai in camera da letto.
Quella sera ero sfinito, tra un turno massacrante a lavoro, telefonata con mia sorella e mia madre e tutti i lavori da fare in casa.
Abitando da solo, e con un cane di quasi 14 anni , lo stress era tale da poter mettere ko chiunque.
Black salì sul letto dopo 5 minuti.
Una cagnolina meticcia taglia medio piccola, con un pelo nero e folto.
Con la sua tipica dolcezza si raggomitolò vicino a me, trasmettendomi il calore di cui avevo bisogno in quei momenti.
La mia vita sembrava aver preso una strada inaspettata.  Non era la prima volta, ma questa fu decisamente più sterrata e difficoltosa.
Ti senti come su un viale alberato oscuro, con una torcia che non fa luce, e l’oscurità opprimente tutto intorno.
Una sensazione con cui convivere costantemente, finché la conoscenza non riesce a dipanare i dubbi e la foschia.

 La mattina del primo weekend libero lo passai a pulire casa.
Nel pomeriggio, post pranzo da Mamma, mi misi al pc.
Aprì quel benedetto pdf e cominciai a leggere. Unica compagna di quel silenzio? Una tazza di camomilla.

Il concetto di “autismo” ha rappresentato, e rappresenta ancora oggi per una gran parte di persone non addette ai lavori, una condizione misteriosa che costruisce attorno alla persona che la vive un alone di impenetrabilità. Con il tempo la scienza ha fatto chiarezza e ha permesso di individuare l’insieme dei comportamenti che caratterizzano questa condizione. Per un lungo tempo, però, l’attenzione della psichiatria si è concentrata soprattutto sulla tendenza all’isolamento, passando l’idea che tale caratteristica dovesse essere considerata quella di maggiore rilievo nell’autismo. Che vi fosse un’equazione concettuale tra l’autismo e l’isolamento è evidente anche nella parola stessa autismo (autus, dal greco “sé stesso”) che conserva nel suo etimo proprio la tendenza all’isolamento. Come si vedrà in seguito, però, l’idea dell’isolamento, come caratteristica centrale, per ciò che oggi intendiamo per “autismo” è del tutto fuorviante.”


Andai avanti sino a sera, scoprendo cose che mai avrei immaginato.
La mia mente immagazzinava una marea di dati, come fossi un robot.
A volte dovetti rileggere alcuni passaggi, perché troppo complessi.
Guardai l’ora.
Erano le 19.30. Avevo passato un intero pomeriggio a leggere, e avevo le meningi a fuoco.
Un cerchio alla testa simile a quelli avuti durante la meningite.
Misi un segnalibro digitale, feci una doccia e chiamai mia madre.
Quel sabato avrei cenato con loro.
Sistemai Black, mi misi in macchina e via verso Alezio.

“Daniel, guarda chi c’è”
La voce di mia  sorella riecheggiava nelle scale del condominio di mia madre.
Salì le scale con calma, e arrivato all’ultima rampa del terzo piano lo vidi fermo vicino all’uscio della porta.
“Cu cù” dissi sporgendomi leggermente.
Lui mi fisso per pochi istanti, urlò di gioia e rientrò in casa.
Mia sorella lo fissò correre via.
Aveva uno sguardo malinconico, un misto tra il triste e il felice.
Non gli ho mai chiesto cosa pensasse, durante questi momenti.
Alla fine cosa pretendevo? Una “bambina” di appena vent’anni con un bimbo autistico di quasi 3.
Probabilmente a quella domanda mi avrebbe risposto in lacrime.
E sinceramente, di vederla piangere mi ero “stancato”.
Avrei desiderato tante cose per lei. Eppure l’unica cosa certa, e sicura, è sempre stata la stessa dal 1993: RENDERLA FELICE.
Anche se questo significava sacrificare il mio mondo illuminando il suo.
I fratelli maggiori servono a questo, giusto?
Ad illuminare la strada quando la luce del sole viene meno.
L’oscurità dentro me andò via via allentandosi.
Più leggevo, più ne capivo e più diventavo forte con me stesso.
Ora sapevo come stimolare Daniel, il suo mondo, la sua bolla.
Il tempo e l’esperienza mi hanno insegnato tanto.
Credevo che a quasi 30 anni avrei potuto catalogare le mie esperienze su un’unica libreria.
Mi sbagliavo!
Di fatto ho potuto solo riorganizzare uno scaffale, mentre tutto il resto arrivava come un fiume in piena.
L’autismo mi ha fatto capire quanto la vita sia una mina vagante.
Gli obbiettivi non sono punti dove arrivare, ma continui spunti di partenza.
Come in un caleidoscopio mutevole, capace di rendere ogni cosa uguale ma diversa. 

lunedì 6 settembre 2021

Silenzio autistico (Sesta parte)


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Una domanda che spesso mi viene posta, dopo aver raccontato l’epopea iniziale, è “Chi ti ha sostenuto mentre sostenevi gli altri?”.
La risposta è sempre la stessa: Nessuno!
Purtroppo non ho consigli da poter dispensare, ne “trucchi” da poter far provare.
La verità è che in simili situazioni conta tanto l’improvvisazione, un’ottima dose di fortuna, e un carattere così forte da sdoppiarsi.
Sì, la verità è che mi sono sdoppiato.
Una parte di me era il cinico e razionale, l’altra parte piangeva fissando quel piccolo bambino biondo di quasi 3 anni.
Una guerra interna, mentre cercavo di placare quella di chi amavo. Mia sorella e mia Madre.
In simili situazioni si è fortunati quando qualcuno bada alla tua anima ferita, la cura e cerca di chiuderla.
Mentre io ero da solo, in compagnia di quel me stesso che odiavo.
Quel me stesso che dava risposte razionali, mentre l’altro chiedeva semplicemente in modo ossessivo “Perché a noi”.
Il tarlo di qualsiasi genitore resta sempre lo stesso. Una serie infinita di perché senza risposta.
Abitavo da solo, in una casa di circa 90/100 mq.
L’avevo scelta perché inizialmente dovevano esserci anche i miei con me.
Loro poi decisero di restare nel paesino di provincia, mentre io continuai il mio cammino solitario in una città che conoscevo solo perché sede del mio posto di lavoro,Casarano
Questa città mi ha sempre affascinato.
Situata quasi in mezzo alla parte più a sud del tacco d’Italia. A metà tra lo Jonio e l’Adriatico.
Nel punto più alto, situato sulla collina della “Madonna della Campana”, si riesce a vedere benissimo la vicina Taviano, e il Mare di Mancaversa.
Ho visto una serie interminabili di tramonti da lì, mentre asciugavo a me stesso le lacrime.
Avevo costantemente emozioni contrastanti.
Di fronte a me l’infinito di una terra bellissima, dentro le limitazioni dettate da qualcosa che non sapevo comprendere.

Daniel è un figlio.
Mio cognato lo sà, e ne è fiero.
Inizialmente credevo gli desse fastidio questo mio amore incondizionato.
Invece è sempre stato felice del mio rapporto con suo figlio.
Daniel ha rappresentato una svolta, nella mia vita.
Da bambino ho amato e cresciuto mia sorella, essendo più piccola di 7 anni.
Mia madre era costantemente a lavoro, ed io ben presto presi coscienza delle mie responsabilità.
Sono stato fratello e genitore. Era quasi scontato che Daniel avesse le medesime attenzioni da parte mia. Come un dolce proseguo che solo un papà riuscirebbe a donare.
Sono, e spero di essere sempre,un sostegno “rafforzante”.
Il tirante di un infinto  ponte pieno d'amore.

Quando tornai a casa, quel giorno di Dicembre, venni assalito dallo sconforto.
Presi un cuscino e iniziai ad urlare fortissimo mentre soffocavo le urla.
Di fronte a mia madre e mia sorella non avevo potuto avere segnali di debolezza.
Ero da solo, in quella casa così grande e vuota.
Avrei voluto donare parte della mia vita per poter risolvere quelle limitazioni.
Una diagnosi di autismo ti cambia.
E non importa se tu sia uno zio, un nonno o un genitore.
Sai che la vita non sarà esattamente come quella degli altri.
Ti aspetti sempre il meglio del meglio.
E quando arriva la botta, è come prendere un treno a 1000 kmh in faccia.
Nei giorni successivi mi ritrovai ad ordinare e leggere libri sull’argomento.
Quando alla fine arrivai su un libro che cambiò il modo di vedere l’intero nuovo panorama che mi si era parato davanti.

martedì 17 agosto 2021

Se non ci sentiamo... fa niente!

 


Quante volte abbiamo discusso o, peggio ancora litigato, con persone a cui volevamo bene?
Innumerevoli, direi.
Alla base di molte discussioni, specie nell'adolescenza (ma non solo), c'era la classica frase "Non ti fai sentire, quindi non mi faccio sentire".
Come se il "farsi sentire" fosse un bisogno impellente per poter dimostrare la propria amicizia.
Come se il  "farsi sentire" dimostrasse pienamente un sentimento (in teoria) già consolidato, come potrebbe essere un'amicizia.
Quando esisteva solo la carta, gli unici mezzi di comunicazione erano le lettere.
Un fiume di parole impresse con l'inchiostro, e personalizzate dalla grafia di chi scriveva.
Si donava ogni speranza al francobollo, immaginandolo come un carro trainato da cavalli, in corsa verso il destinatario. 
I tempi di tali comunicazioni erano incalcolabili. Una sorpresa che poteva arrivare in qualsiasi momento. 

Successivamente si è passati ai telefoni di casa, anche se proibitivi in termini di costo.
Poi arrivò il declino.
Se nell'epoca dei telefoni cellulari GSM il "farsi sentire" era rappresentato da squilli random ed sms con sole emoticon in Ashi ,l'avvento dei primi smartphone ha dato il via ad una presenza online costante e quasi asfissiante.
Senza contare gli allert passivi sullo status della persona in oggetto: Se sei online, quando lo sei stato e addirittura l'ora.
Per carità, lungi da me dal giudicare il progresso tecnologico (che utilizzo e apprezzo), ma questa serie di "innovazioni" hanno creato situazioni tossiche, al limite dello "stalkeraggio" (passatemi il termine).
Ma sopratutto hanno in qualche modo rimosso i paletti stabiliti dai vecchi sms, fissandone di nuovi molto più invasivi.
E il "farsi sentire" è diventato immediato e "pericoloso".
Lo dico senza alcun problema: "Sento" le persone quando so di poter raccontare qualcosa di nuovo, e non per "Pro forma".
Non amo le conversazioni lampo in cui ci si saluta, si fanno (e si danno) le solite risposte di rito, facendo morire poi il tutto con un laconico "👍😃".
"Sento" le persone perchè voglio parlare con loro. "Sento" le persone perchè voglio rilassarmi, sorridere,raccontare".
Capita poi che con alcuni amici, vivendo a kilometri di distanza, non ci parli saltuariamente.
E magia delle magie, quando li rivedo è come se ci fossimo visti ieri.
Detto fra noi, non esiste alcuna magia. Si tratta molto semplicemente di maturità.
Si rimane amici anche non sentendosi.
Molto semplicemente la stima che due o più persone nutrono l'uno nei confronti dell'altro, alimenta un fuoco difficile da spegnere.
Sarebbe inutile , quanto deleterio , mandare messaggini inutili.
La maturità ti porta a capire che per qualcuno ci sei sempre, anche nei silenzi.
L'importante è esserci quando il tempo e le situazioni lo richiedono.
Non ci sono regole fisse. Ci siamo quando dobbiamo esserci. Senza alcuna restrizione o regola.

E alla fine , se non ci sentiamo... fa niente!

Quando ci rivedremo, sapremo cosa dire. 

mercoledì 11 agosto 2021

Lo specchio che non riflette

 



Cosa fare quando uno specchio non riflette?

Quando non riflette ciò che idealizziamo, ciò che ci aspettiamo.
Molto semplicemente.... Niente!
In passato la disperazione era onnipresente, quando lo specchio non rifletteva.
In realtà, quello a non "riflettere" ero io.
Lo specchio era l'immagine distorta di me stesso. Quella che volevo imporre.
Non riflettendo, lasciavo alla rabbia e alla frustrazione il resto.

Dopo un periodo da bulimico, e anni di anoressia, ho cominciato a riflettere.
Il riflesso fù chiaro per la prima volta, ma continuava a non riflettere ciò che volevo.
Con il tempo ho imparato ad amare il riflesso, a riflettere e sentirmi in pace.
Lo specchio riflette, e rifletto anche io.
Basta solo questo.
Riflettere su se stessi è il primo passo per vivere.
La riflessione altro non è che uno spunto verso cose belle.
Quelle cose che di riflesso emanano luce, e non più l'oscurità.

lunedì 9 agosto 2021

Assimilare il dolore per andare avanti


                 © Illustrazione di Carla Manea per Ibby Italia


La nostra esistenza è l’insieme di un  continuo e perpetuo  ciclo diviso in tre parti: Inizio, giro, fine.

Ogni esperienza, ogni singolo momento vissuto, fa parte di questo ciclo.
L’amore , così come la natura  della vita stessa, fanno parte di questo ciclo.
Ribellarsi non serve, perché non siamo costretti da nessuno.
La ribellione non comporta mutamenti, ma solo nuovi cicli.
Scegliere una nuova strada chiude automaticamente il precedente ciclo, aprendone uno completamente nuovo.
Il dolore rappresenta la voragine che impedisce la fine.
La sospensione su un vuoto apparentemente incolmabile.
Il futuro appare come avvolto dalla nebbia, il passato invece troppo evidente e "presente".
C’è chi dice che bisogna affrontare il passato, per avere una speranza.
Una piccola luce capace di filtrare la fitta nebbia.
L’affronto costituisce una battaglia. Una battaglia che rischia di diventare una guerra in grado di annientarci.
Ciò che è passato è passato.
Non è codardia, ma semplice costatazione.
Non abbiamo mai bisogno di affrontare qualcosa, per poterla sconfiggere.
Abbiamo dalla nostra la miglior soluzione: ASSIMILARE.
Assimilare il dolore ci porta a capirlo, a comprendere meglio l’insieme.
Assimilare significa redigere un resoconto degli eventi, analizzarli analiticamente.
Una volta compreso quel ciclo lo si ripone come si fa con i libri già letti.
Solo così tutto sarà concluso.
La voragine sarà colmata dalle pagine scritte, una brezza nuova dipanerà la foschia e la luce ricomincerà a filtrare.
Assimilare significa comprendere.
Il dolore diventa così parte del ciclo, formando l’importante fondamenta su cui costruire il prossimo.
Come monito di ciò che fu, e base di ciò che sarà.
Indipendentemente dal tempo.

martedì 13 luglio 2021

Il tempo della morte




Esiste.
Persiste ma non si fa notare.
E' visibile solo quando arriva, e diventa tangibile come presenza solo quando qualcuno che amiamo viene accolto sotto le sue ali.
La morte non è solo uno stato, molto semplicemente è uno step di un circuito chiuso.
Si nasce, si vive e si muore.
Non esistono tempistiche certe, ma solo avvenimenti che potrebbero farla comparire.
Con essa cessa la vita e nasce il ricordo.
L'assenza poi è l'eco che l'accompagna, come un urlo sordo in una valle vuota  senza confini.
Morte impone e detta regole, impossibili da controbattere.
Ecco perchè l'anima ha bisogno di attenzione. 
L'anima deve essere nutrita da sensazioni piacevoli, da un vissuto genuino.
Perchè nascendo, il ricordo, possa vivere per sempre.
In un circolo senza fine, dove tutto si perde in nuvole di passaggio.

(*Crediti e diritti foto Linda Lithén)






martedì 4 maggio 2021

Silenzio Autistico (Quinta Parte)

 


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Se ci fosse un modo, per descrivere gli sguardi di un padre, probabilmente lo avrei già fatto.

Ma non ho mai trovato le parole giuste.
Fissai Marco , quando tornammo a casa. Anna gli disse tutto in lacrime.
I suoi occhi sembravano persi in un mare in tempesta. La stessa tempesta che imperversava fuori.
Ogni tanto cercava il mio sguardo, come a sentirsi dire “No, sta esagerando”.
Si sedette, lentamente.
E mentre Anna gli spiegava ogni cosa, lui fissava Daniel intento a giocare.
Probabilmente stava pensando le mie stesse cose.
Lui, un anno più grande di mia sorella. Ritrovatosi padre e marito in “tenera” età.
Travolto da un destino beffardo, e da qualcosa che difficilmente si assimila.
Dopo aver finito di raccontare tutto, Anna si mise a preparare la cena.
Lo vidi alzarsi di scatto e andare via, sbattendo la porta di casa.
Fermai mia sorella, che era già pronta a corrergli dietro.
No, ognuno reagisce a modo suo. Lascia stare, Anna.”
Marco è sempre stato un ragazzo molto calmo, educato.
Quando lo conobbi era appena 17 enne. Un ragazzo biondo, occhi chiari e già abbastanza alto.
Entrò per la prima volta , nella mia cameretta, insieme a mia sorella.
Imbarazzato, impacciato e rosso come un peperone.
Gli sorrisi, stringendogli la mano come si fa con una persona che già a pelle ti è simpatica.
Quasi subito tornai a giocare sulla mia fida Playstation 2 , mentre lui e mia sorella andarono a fare un giro in casa.
Ci pensai tanto quella sera.
E quando andò via, aprì la porta della camera di mia sorella esclamando “Finalmente te n’hai truatu unu bellu, LMT”* (*Finalmente ne hai trovato uno carino).
Lei sorrise, dicendo semplicemente “Speriamo Gabri”.
Uscì dalla stanza socchiudendo la porta , e tornai in camera mia.
In cuor mio speravo che quella “bambina” di 16 anni potesse trovare qualcuno da poter amare in modo immenso e stupefacente.
E’ ciò che alla fine si aspettano tutti, per coloro che amano.
Nel 2012 si sposarono, pochi mesi prima della nascita di Daniel.
Un matrimonio civile semplice e pieno di sorrisi.
Lei aveva un vestito che la faceva sembrare una venere paleolitica, lui elegante e impacciato.
Entrambi erano un chiaro esempio d’amore, un qualcosa che ancora oggi difficilmente potrei trovare altrove.

Marco si destabilizzò , dopo quella notizia.
Dovette resettare se stesso, ricominciando a idealizzare Daniel diversamente.
Alla fine , tutti noi ci ritroviamo a idealizzare  qualcosa o qualcuno, magari sulla base delle nostre passioni.
Sbagliando si idealizzano anche i figli, imponendo molto spesso cose che sono state nostre ambizioni mai effettivamente espresse, per un motivo o per l’altro.
Ho dovuto spiegare, passo dopo passo, anche a lui come muoversi in  quel contesto.
La diagnosi di Daniel trasformò Marco.
Cambiò la visione della realtà, della vita.
Come fu per mia sorella, anche per lui la cruda realtà bruciò ulteriormente alcune tappe.
Negli anni, entrambi hanno affrontato tempeste e mareggiate terribili.
L’età, le situazioni e il complesso status di Daniel, hanno più volte creato fratture.
Fratture sanate dal tempo, e dalla maturazione di entrambi.
Non ho mai giudicato il loro malessere. Ho sempre evitato di immettermi nel pieno delle loro discussioni, perché non c’era una posizione assolutamente giusta o sbagliata.
Erano pur sempre dei ragazzi, messi di fronte a qualcosa che avrebbe scosso e tormentato la coppia più “navigata”.
Daniel ha sempre visto in marco una figura genitoriale autorevole.
La sua prima parola, comprensibile e di senso compiuto, fu proprio Papà.
Quel “Papà” detto a Marco aveva un valore immenso.
Detta da un bambino che non parla, sembrò come un raggio di sole in mezzo ad un temporale.
Negli anni, proprio grazie alla tenacia di Marco arrivarono ulteriori risultati importanti.
Non per ultimo quello che più ci ha fatti piangere.

Mia sorella si accorse che Daniel aveva il controllo degli sfinteri.
Senza pannolino, riusciva a trattenere i suoi bisogni fisiologici.
Gli sembrò un buon punto di partenza, anche se l’età era clinicamente “avanzata”.
Aveva 6 anni, e le terapiste dicevano fosse ormai troppo tardi.
“Daniel non toglierà mai il pannolino”
Questo non era un problema estetico, per noi.
Non avevamo paura che qualcuno potesse dire qualcosa, sulla presenza del pannolino.
Negli anni però Daniel ci aveva stupiti in tante cose.
La parola, anche se utilizzata in un modo personalizzato ed estremamente sintetico.
Operazioni semplici su comando, come “prendi le scarpe” “mettiamo i pantaloni” “prendi il bicchiere”.
Il fatto che Daniel non potesse togliere il pannolino, anche solo durante le sessioni a scuola o al centro in cui tutt’ora si reca, ci sembrava assurdo.
Marco, nel pieno dell’estate 2019, tolse il pannolino a Daniel.
Questo inizialmente non rappresentava mai un problema, perché a lui piaceva essere più libero.
Tutto tranquillo tranne quando arrivava lo stimolo.
In quel caso si disperava, piangeva tantissimo.
L’idea di sporcarsi è sempre stato qualcosa da evitare, per lui.
Mio cognato , nel pieno di questa “Crisi” da pannolino, lo prese e  lo portò al bagno.
Lo sedette comodo e si mise di fronte a lui.
Daniel fece per alzarsi, ma lui lo “forzò” delicatamente  a restare seduto.
Mio cognato si prese di tutto, quella mattina.
Daniel tirò a suo padre una marea di schiaffi, lo graffiò in pieno volto e sulle braccia.
Marco in quel momento era un soldato che delicatamente stava solo facendo il bene di suo figlio.
Nonostante le urla, i pianti, gli schiaffi e i graffi.
Dopo circa un’ora e mezza, Daniel fece pipì, ormai stremato.
Si azzittì di colpo, e guardò Marco come a dire “Cosa sto facendo?”.
Da quella famosa (quanto sofferta) pipì, Daniel imparò ad utilizzare correttamente i servizi igienici, e ad evitare il pannolino per quanto possibile.
Ovvio, ha bisogno di assistenza quando si reca in bagno.
Nonostante tutto però, Daniel è quasi sempre senza pannolino.
Ci sono ancora quelle situazioni che lo richiedono, ma Daniel il pannolino è riuscito a limitarlo.
E questo nonostante le visioni pessimistiche.
Marco mi confessò di voler provare a toglierlo del tutto, ma con i tempi giusti.
Quando me lo dissero, piansi.
Come per qualsiasi progresso, anche questo era una vittoria immensa.

Marco è un uomo complesso, all’apparenza chiuso e poco incline a dare confidenza.
La vita ha “calcificato” la sua corazza, ora in grado di attutire i colpi più potenti.
Per suo figlio si è sempre fatto in quattro, e come qualsiasi padre ha lottato affinché non subisse alcun tipo di discriminazione.
Si, perché anche se potrebbe non sembrare così, anche noi abbiamo vissuto discriminazioni velate su Daniel.
Discriminazioni all’apparenza stupide, ma terribilmente dilanianti.
In tanti ambiti e situazioni è mancata quell’inclusione che tanti vanno decantando.
Perché alla fine c’è sempre qualcuno che , di fronte a legittime richieste, ti risponde dandoti della ”vittima”.
Marco ha rinforzato la corazza, per poter attutire i colpi e rispondere sempre punto su punto.
Marco è quel porto sicuro in cui attraccare. Il porto in cui essere cullati dolcemente, mentre fuori imperversa la tempesta.
Marco e Daniel si somigliano tantissimo. E nonostante tutte le difficoltà, come solo un buon padre sa fare, Marco continua ad irradiare il mondo di Daniel in modo unico.
E sono sicuro, che se solo potesse parlare un po' di più, gli direbbe molto semplicemente
“Sono orgoglioso di te, papà”.

domenica 2 maggio 2021

Silenzio Autistico (Quarta Parte)

 


PRIMA PARTE CLICCA QUI

SECONDA PARTE CLICCA QUI

TERZA PARTE CLICCA QUI

Si susseguirono i compleanni, le stagioni.

Daniel cambiò fisicamente, diventando un piccolo ometto.
I risultati della terapia furono lenti e costanti, con passi in avanti consistenti.
Il centro “Amici di Nico” era situato, all’epoca, nella parte alta di Matino, un piccolo comune in provincia di Lecce.
Mia sorella era con i miei ad Alezio, circa 15 km di distanza. Io invece abitavo già a Casarano, a soli 2 km da Matino.
Ci alternavamo nei turni, cercando di sincronizzare tutto tra lavoro, asilo e centro.
Se io lo prendevo e lo portavo al centro, mia sorella lo prendeva e lo riportava all’asilo comunale.
Insomma, era una maratona abbastanza estenuante, ma dovuta.
Si arriva a fine settimana distrutti, ma soddisfatti.
Mia sorella lavora nello stesso luogo dove un tempo lavoravo anche io. Un call center che ci ha permesso di sviluppare noi stessi sia professionalmente che economicamente.
Una mattina mi chiamò prima del mio turno, dicendomi che aveva lasciato Daniel a casa con la febbre.
Ma nulla di che, perché c’era nostra madre insieme a lui.
Quel giorno vidi arrivare mia sorella a lavoro, e dopo nemmeno un’ora andò via.
Credevo avesse preso permessi per stare vicino al bambino.
Quindi evitai di chiamarla per sincerarmi della situazione, conscio che l’avrei fatto comunque dopo.
Erano le 11.30.
Sul display del mio smartwatch “Anna” campeggiava luminoso. Evitai di rispondere.
A lavoro gli smartphone erano vietati.
La chiamata si interruppe, e dopo poco ricominciò.
Lasciai correre di nuovo, anche perché la mia pausa era vicina. Quindi l’avrei richiamata.
Di nuovo una chiamata.
Lasciai ciò che stavo facendo, avvisai il mio TL e corsi verso l’ala della sala adibita alle pause.

Risposi che ero già in ansia, data l'insistenza.
Dall’altro lato del telefono c’era mia sorella in lacrime.

“Daniel ha quasi 40 di febbre Gabri, non scende e voglio portarlo in ospedale”.


Il mio TL da lontano mi scrutò come se avesse avuto un presentimento.
Mi avvicinai con già le lacrime agli occhi, dicendole ciò che mi aveva riferito mia sorella.
Mi approvò immediatamente dei permessi,  raccomandandomi di fare attenzione per strada.
Dalla Zona Industriale di Casarano ad Alezio in meno di 20 minuti , nell’orario di punta.
Arrivai da mia madre, e vidi una situazione che non avevo mai visto.
Entrambe nel panico, Daniel in un pianto ormai sfiancato e praticamente senza forze.
Quando entrai in casa mia sorella esplose in lacrime.
Decidemmo di portarlo subito in ospedale a Casarano, nonostante ci fosse Gallipoli vicino.
Casarano però sarebbe stato ottimo per noi, perché abitavo a nemmeno 500 metri dall’ospedale.
E data la vicinanza, casa  mia sarebbe stata la base migliore per assistere sia lui che mia sorella.
Andammo con due auto, e mentre lei si fece aiutare da mia madre ,caricando  i vestiti necessari qualora lo avessero ricoverato, io mi avviai in macchina con lui.
Era seduto senza forze sul sedile del passeggero.
Spensi lo stereo e allacciai le cinture ad entrambi.
Fece una smorfia di fastidio, ma non ebbe nemmeno la forza di ribellarsi come faceva di solito.
Mi guardò fisso  negli occhi come mai aveva fatto.
Mi misi a piangere. Intuì chiaramente una richiesta d’aiuto.
Mi chinai per baciarlo sulla fronte, e mi accorsi in quel momento che la temperatura stava realmente salendo come in una pentola a pressione.
Nel cammino verso Casarano, emetteva gridolini senza forza, e ogni volta era un pugno nello stomaco.
Continuavo a piangere come un bambino.
Gli tenni stretta la mano per tutto il tragitto, e lui ricambiava la stretta come mai aveva fatto prima di quel momento.
In genere mi teneva la mano quando andavamo a passeggio, ma dopo poco la sfilava per correre.
Quella volta invece fu diverso.
Arrivammo in ospedale, e parcheggiai subito dietro il pronto soccorso, lasciando libero il passaggio.
Dietro di me mia sorella.
Al triage cominciarono con le domande di rito.
Il bambino indica dove gli fa male?
Mia sorella mi guardò, e poi rivolgendosi alla ragazza del triage esclamò “E’ autistico, non parla”.
Ci fissò , aprì subito il portellone che divideva la sala d'attesa dal pronto soccorso, e chiamò subito in pediatria per avvertire.
 Fece salire subito me  con lui mentre mia sorella attese qualche secondo per la compilazione dei dati.
In pediatria aprirono subito, e mi accomodai con lui in braccio.
Arrivò un’infermiera con il termometro.
Un termometro classico, non elettronico.
Non appena lo posi  sotto la sua ascella , Daniel esplose in un pianto incontrollato, ma senza opporsi fisicamente.
Appena pochi secondi dopo si calmò, e dopo averlo tolto si addormentò.
Erano ancora 39.8, praticamente un febbrone per un bambino della sua età.
Si appisolò tra le mie braccia, stringendomi a lui come qualcuno quando vuole sentirsi al sicuro.
L’infermiera mi portò una coperta, che mia sorella sistemò su di me, in modo da coprirlo senza infastidirlo.
Fu la prima volta , post diagnosi, in cui ci confrontammo con il problema vero e proprio.
Non sentirlo parlare era una vera e propria limitazione, in tutti i sensi.
Specie in casi come questi.
Quando sta male è difficile capire dove ha realmente dolore.
Negli anni ha sviluppato autonomamente il modo in cui farsi capire.
Magari toccandosi la parte interessata , ma mai su richiesta.
Un bambino autistico va capito, interpretato.
Daniel è una sfida, per noi e per se stesso.
Quindi pensateci, quando vi ritroverete a sminuire i problemi altrui.
L’autismo non è una condizione facile da affrontare. Ne per chi ne soffre, ne per chi ci vive.

 

FINE QUARTA PARTE



venerdì 30 aprile 2021

Silenzio Autistico ( Terza Parte )

 


PRIMA PARTE CLICCA QUI

SECONDA PARTE CLICCA QUI


"Ciao piccolino, come ti chiami"

 

Daniel era intento a guardare un peluche che si era appena scelto.

Uno dei miei tanti regali.

 

"Non parla ancora?"

 

In quel momento avrei voluto rispondere male.

Sentivo la rabbia montare come se quella sconosciuta avesse detto chissà quali parolacce.

Abbozzai un sorriso, rispondendo con un laconico "Non ancora".

Tirai un sospiro profondo, mentre gli occhi erano già pronti ad accompagnare quel nodo alla gola costante.

 Erano passati circa 3 giorni dalla diagnosi, e ora sapevo dare un nome a quel "non parla ancora".

A lavoro svolgevo i miei compiti correttamente, ma nei miei occhi chiunque poteva vedere l'oscurità.

Un'oscurità generata dalle incognite della vita, dalle paure relative alla non accettazione, all'impossibilità di poter vedere uno sviluppo ordinario di quel bambino biondo con gli occhi azzurri.
Ho sempre considerato Daniel un figlio, prima che un nipote.
Non mi sono mai voluto sostituire al suo papà, ci mancherebbe altro.
Ho sempre cercato di essere una colonna portante, nella sua vita. Senza invadere mai quelli che sono gli obblighi di uno zio, ben diversi da quelli di un padre.
Però non so descrivere ciò che mi lega al mio bambino.
Se solo riguardo gli status su Facebook, mentre lo attendevo, mi viene da piangere. Un legame così forte che ci è sempre bastato uno sguardo, per capirci.

Lo feci sedere avanti, in auto, senza seggiolino.
Si, non è sicuro per un bambino, ma non c'era verso di farlo stare dietro, se con con urla e pianti strazianti.
Ecco, anche quel suo non stare calmo con le cinture del seggiolino di sicurezza, ora avevano un perché.

Se da un lato l'Autismo appariva come una nebbia fitta da cui uscire sembrava impossibile, dall'altra il solo conoscerne il nome appariva come un raggio di luce con cui farsi strada.
Debole, ma presente.
Se c'è una cosa che ho capito, nel tempo, è che se ad una cosa riesci a dare un nome puoi effettivamente cominciare ad affrontarla.


Lo riportai da mia madre, preparandomi poi per il solito turno a lavoro.

 

Erano le 22 circa, quando timbrai la mia uscita da lavoro.
Mentre tornavo a casa, ripensavo a tutto.
Come se la mia mente si divertisse a fare un riepilogo della mia vita sino a quel momento, facendomi soffermare su tanti dettagli inutili.
Una sorta di auto protezione, per evitare lo stress derivato dalla diagnosi.
Eppure, gira e rigira ero sempre lì.
Sistemai i miei cani, e dopo cena mi diressi al pc.Volevo capire un po’ di più sull'Autismo.
Volevo cominciare ad affrontarlo, e non solo a temerlo.
In appena tre giorni ero stanco delle lacrime, dei pensieri brutti. Volevo reagire, capire.
Cominciai a guardare video su YouTube di neuropsichiatria infantile, a leggere sul web articoli di autorevoli firme.
Mi tenni ben lontano dalle teorie bislacche dei complottisti e dei negazionisti. Avevo bisogno di verità e soluzioni, non di complotti e favolette.
Nelle settimane successive ero già pieno di informazioni, anche se molto basilari, sull'argomento.
Probabilmente lo avrete già capito, ma le  persone che più accusarono il colpo furono mia madre e mia sorella. Non che io volessi fare a tutti i costi il forte, ma capì subito che se crollavo io, crollavano loro due.
Erano pienamente convinte che la "colpa" risiedeva in altro, e non ad un possibile "problema" naturale nel  neuro-sviluppo.

 "L'autismo è un disturbo del neuro-sviluppo che riguarda principalmente linguaggio e comunicazione, interazione sociale, interessi ristretti, stereotipati e comportamenti ripetitivi."

 "Ah sì? E come mai bambini autistici non se ne vedevano prima?"

 "Perchè c'era ignoranza in tal senso. In passato i bambini con tale problema venivano etichettati come pazzi o ritardati, e chiusi in quelle strutture maledette che erano i manicomi. Praticamente dei reietti. Non c'era la diagnosi precoce, le terapie. Non conoscendo pienamente il problema, lo accodavano ad altre cose."

 "Ma non c'è una cura?"

Questa era , ed è , la domanda a cui rispondere   mi provoca ogni volta un tuffo tremendo al cuore.

 "No, perché non c'è una malattia, Mamma. Daniel non è malato. Daniel ha "semplicemente" un deficit che al momento non sappiamo nemmeno stimare, vista l'età."

 "Dobbiamo aspettare che diventi grande?"

 "Dobbiamo aspettare che maturi, per renderci conto dei limiti e possibilmente eliminarli o limarli."

 

Tutto questo appariva come assurdo, a mia madre e mia sorella. Loro continuavano a pensare "di pancia", mentre io ero già oltre.
Ai loro occhi io ero "insofferente" e privo di sentimenti.
Il mio essere dettagliato, calmo e privo di reazioni scomposte di fronte a loro, significava essere cinico.

"Non hai un cuore, perché altrimenti capiresti che non è come dici tu".

Senza volerlo mia madre aveva appena detto ciò che volevo passasse apparentemente a loro.
Avevo messo il mio cuore in gabbia, dopo aver pianto di nascosto.
Dopo aver versato lacrime amare immaginando  una prospettiva di futuro distrutta da quella cazzo di diagnosi.
Il mio cuore era in gabbia non per paura, ma per non farci crollare all'unisono nello sconforto e nelle tenebre.
Volevo essere la luce capace di dipanare, per quanto possibile, quella nebbia.
Non volendo, offrì a mia madre e mia sorella un muro morbido su cui picchiare per sfogarsi.

Una mattina di un giorno che non ricordo , arrivò una telefonata.

"Gabriele..." la voce di mia sorella era quasi rotta dal pianto.

 "Dimmi" cercai di stringere il cuore.

 "Daniel comincerà ad amici di Nico la prossima settimana. Faranno prima una valutazione, e poi ci diranno quanto partirà il suo percorso"

 

Silenzio

 

"E quindi? Non sei contenta?"

"Che mio figlio sia Autistico?"

"No, che Daniel possa finalmente uscire da quella nebbia, e farci sentire la sua voce guardandoci negli occhi"

In quel momento capì che il cuore di una mamma, per quanto forte, non sarebbe mai stato pienamente pronto ad affrontare tutto da solo.
Io però ero lì, insieme a lei.
Ero lì con lei quell’otto Maggio del 1993.
Ero lì con lei ad affrontare la battaglia più tosta della nostra vita.

FINE TERZA PARTE 



"Le mani sul cuscino, i tuoi occhi su di me
Li ho cercati da lontano quando ho capito che di me
Hai visto l'invisibile...."

                                                 Laura Pausini 


mercoledì 28 aprile 2021

Silenzio autistico (Seconda Parte)

 


 ( Se non hai letto la prima parte clicca QUI )

Non ricordo esattamente il giorno della settimana.


Ricordo solo che pioveva, tanto.
Quel giorno presi ferie a lavoro, perchè il cuore era pessimista.
Sapevo sarebbe stato qualcosa di brutto, e sentivo di non poter affrontare un turno lavorativo dopo qualsiasi notizia.
Chiunque viva l'attesa per una diagnosi simile  non è mai positivo.
Perchè ciò che ti porta ad indagare sono segnali ben riconoscibili.
E' inutile farsi domande e immaginare possibili soluzioni benevole, in quei momenti.
E comunque i  problemi erano di fronte a noi, sbattuti in faccia a un ragazzo di 28 anni e ad una "bambina" di 21.
Passai a prendere mia madre, mia sorella e Daniel.
Imboccai la statale per Lecce, la SS101 .
Avevo il cuore in gola, e la lacrima facile. Per la prima volta , da quando avevo l'auto,sostituì il cd di "Resta in ascolto" ( il mio preferito della discografia di Laura Pausini) con uno generico di musica dance anni 90.
Tenni il volume basso, per evitare di infastidire mia madre, già alterata perchè rifiutava a priori l'idea che Daniel potesse avere qualcosa di "non ordinario".
Arrivammo al centro "Cittadella della salute" di Lecce con 20 minuti di anticipo.
Entrammo nel padiglione di riferimento, e ci mettemmo comodi ad attendere.
Comodi per modo di dire, visto che quasi subito dovetti correre dietro a Daniel.
Arrivò  finalmente il nostro turno, ed entrammo tutti e quattro insieme.
Mia sorella spiegò ciò che avevamo notato in Daniel, descrivendo ogni singola cosa che a suo avviso non andava.
Dopo aver descritto il quadro della situazione , il Dottor Massagli prese in braccio Daniel e lo portò su un tipico tappeto per bambini.
Questo tappeto era pieno di giochi, così tanti che Daniel ebbe subito da fare.
Il dottore prese in mano una piccola palla.
Lo chiamò, ma niente.
Daniel era impegnato a giocare.
Gli prese delicatamente il braccio, per chiamarlo e attirare la sua attenzione.
Niente, Daniel era impegnato a giocare.
Il medico si spostò di fronte a lui, chiamandolo e fissandolo. Ma Daniel non ebbe alcuna reazione.
Alla fine provò quella che lui citò come  una sorta di "prova del nove".
Fece scorrere la palla verso Daniel, sperando la raccogliesse.
Niente.
La palla toccò i piedini di Daniel, ma lui era intento a giocare.
Gli scostò lo sguardo delicatamente, come a costringerlo ad  un contatto oculare.
Daniel scostò subito la mano del medico, senza nemmeno fissarlo  come a dire "Hei, cosa fai".
Il dottor Massagli mi guardò pessimista, mentre tornava alla scrivania.
Mia sorella  aveva uno sguardo simile a chi sa già di doversi schiantare al suolo senza paracadute.
Mia madre già in lacrime.
Lacrime silenziose, diverse da quelle a cui ero abituato a vederla in simili casi.

"Signora" disse guardando mia sorella "Daniel ha tutto ciò che si può definire come disturbo dello spettro autistico.
Al momento è abbastanza difficile inquadrare il livello, se così possiamo dire.
Abbiamo bisogno di più tempo.
Ma non per questo bisogna perdere tempo.
Daniel deve necessariamente cominciare a fare terapia.
E' un bambino piccolo, e la diagnosi precoce consente di poter fare prima e meglio
."

AUTISMO

Cosa cazzo significa essere autistici?
Perchè si diventa autistici?
Cosa è successo?
Cosa non ho fatto?
Perchè proprio a noi?
Perchè il mio bambino deve fare terapia? E' malato?


Guardai mia sorella negli occhi, prima ancora che simili domande potessero uscire dalla sua bocca.
Il mio stomaco fu lacerato, dilaniato e mangiato da un mostro invisibile.
Non riuscì a realizzare niente, in quel momento.
Mia madre in lacrime, mia sorella idem.
E io? Io  mi tenevo aggrappato ad una grata invisibile, come un passegero del Titanic durante l'affondamento.
Fissai Daniel, e il nodo in gola si fece forte, IMMENSO.
Un bambino così bello, biondo con occhi azzurri, in salute , perchè?
Alzai gli occhi al cielo , facendo rimbombare dentro me stesso una sola ed unica domanda:

"PERCHE' PROPRIO A NOI?
PERCHE' PROPRIO A LUI?"


" Chi resta qui , spera l'impossibile..."
                                 INVECE NO - LAURA PAUSINI

 

FINE SECONDA PARTE



 



giovedì 18 febbraio 2021

Mini recensione senza spoiler de "La stanza", esclusiva Prime Video

 


Recensire questo film è un compito arduo.
Perchè le emozioni che scatena, dall'inzio alla fine, sono molteplici.
Ma sopratutto complesse e articolate.
E non le si può descrivere nella loro interezza, perchè si andrebbero a svelare parti importantissime della trama.

Il film parte in una camera da letto.
Quella che sembra essere apparentemente la protagonista, Stella, e sul ciglio della finestra.
Vestita in abito da sposa e  pronta per  lanciarsi nel vuoto.
Viene interrotta dal suono del campanello di casa.
Attende qualche attimo e rimette i piedi sul pavimento,sembra aver solo  rimandato di pochi minuti  il proprio suicidio.
Il campanello continua a suonare,come se fosse premuto ininterrottamente per attirare l'attenzione.
Alla porta si palesa Giulio, un uomo che dice di aver prenotato una camera in quello che possiamo intuire fosse in precedenza un B&B.
Stella è quindi la proprietaria di un maniero stile fine 1800 ( apparentemente in rovina ) utilizzato in precedenza come B&B.
La donna fa presente all'uomo che non affittano camere da ormai molto tempo, e che quindi non è disposta ad ospitarlo.
Dopo vari tentennamenti , Giulio si dice amico del marito, e convince Stella a farlo entrare per "almeno un bicchere d'acqua".
Da qui partiranno tutta una serie di eventi mai scontati.
I sentimenti messi in campo dal regista , Stefano Lodovichi , sono dei veri pugni nello stomaco.
Specie per chi abbia vissuto ,quei medesimi momenti e sentimenti,nella propria vita.
In questo film ho rivisto me stesso. La rabbia, il rancore.
Ho sentito sulla mia pelle il caro prezzo pagato dalle menzogne, dal gioco stupido di chi diceva di dovermi proteggere.

Enigmatico quanto chiaro, "La stanza" è la metafora perfetta del nostro tempo.
Dove l'amore diventa "scontato" e letale , mentre  l'abbraccio negato vale una vita intera.
Tremendo, sentimentalmente crudo e allo stesso tempo soffocante.
Da vedere assolutamente!

sabato 13 febbraio 2021

Silenzio autistico ( Prima Parte )

 

            


Sono fratello,zio,papà.
Un papà "sanguigno", di cuore, di bene, d’amore.
Ho compreso la vita, nel suo essere circolare e discontinuo, già dall'infanzia.
Le molte cicatrici , dettate da lotte a difesa del prossimo, hanno temprato il mio carattere.
Sono cinico quanto basta per non lasciarmi trasportare dalle emozioni forti.
Riesco ad essere introspettivo, ed analizzo le situazioni in modo analitico. Cerco di capire , punto per punto, lo schema preciso che muove una determinata situazione, tentando di comprenderla appieno.
So però che alcune situazioni potrebbero non avere una logica precisa, o in linea con altre sue simili.


Daniel è nato nel 2012, il 5 Maggio di una primavera dai sapori estivi.
Ad Anna si ruppero le acque nella notte, e alle prime luci dell'alba fu effettuato un cesareo d'urgenza.
Alle 8.30 del 5 maggio 2012 stringevo tra le mani il mio primo nipote.
Il legame fu immediato. Come quando incroci lo sguardo di qualcuno che sai amerai per sempre.
Non era la prima volta.
Diciannove anni prima , l'8 Maggio 1993 alle 8.30 del mattino, andai in ospedale con papà.
In braccio a mia madre c'era mia sorella. Arrivammo in ritardo , Anna aveva appena finito la poppata, e un'infermiera la stava portando via.
Ebbi l'occasione di vederla per la prima volta , ma solo per pochi minuti.
Piansi in modo incontrollato, quando la portarono via. Fu qualcosa che feci istintivamente. Molti fratelli maggiori, specie se piccoli, attivano un meccanismo di gelosia nei confronti del nuovo arrivato.
Io non sono mai stato geloso. Fui protettivo sin dall’inizio.
Avevo poco più di 6 anni.
Negli anni successivi fui io ad occuparmi di lei. Un bambino di 8/9 anni che bada ad una bimba di 7 anni più piccola.
Gli preparavo da mangiare, la lavavo, gli cambiavo il pannolino, la portavo in giro.
Non esistevano smartphone. Eravamo io, lei e la piccola Alezio.
Alezio, la città che ha dato i natali ad entrambi.
Una ridente cittadina del sud Salento, a circa 5 km da Gallipoli e a 36 km dal capoluogo.

2013/2014

Frequentavo la casa di mia sorella in modo assiduo. Daniel era il mio principale pensiero.
Ogni volta che arrivavo, era una festa. Baci, abbracci, sorrisi.
Ero solito spronarlo in attività ludiche di ogni genere.
Sin da piccolo ho cercato di attivare la sua fantasia , comprando delle generiche costruzioni.
Proprio le costruzioni sono diventate il pilastro portante delle attività di Daniel.
Quasi come se quel determinato gioco rappresentasse per lui la mia persona.
Nonostante il mio spronare , sentivo ci fosse qualcosa di strano.
Lo vedevo nel volto di mia sorella , quando le chiedevo di eventuali progressi verbali.
Daniel diventava sempre più grande, e sempre più chiuso in una sorta di bolla.
Bolla che , di tanto in tanto, solo io e i suoi genitori riuscivamo a rompere.
Decisi di indagare meglio, interpellando con la dovuta cautela Google.
I primi risultati, dopo aver descritto quelli che ritenevo essere dei sintomi, non furono dei migliori.
Quella sera, chiusi in lacrime il pc, sperando che nulla di ciò che avevo letto fosse reale.
Intanto i dubbi di mia sorella aumentavo giorno per giorno.
Io ascoltavo ogni suo pensiero, ogni singola preoccupazione. Cercavo di analizzare insieme a lei ogni singolo aspetto comportamentale di Daniel, sperando fosse solo una fase transitoria della normale crescita di un bambino.
Mentre io sostenevo e cercavo di aiutare mia sorella, i suoi dubbi e paure venivano demoliti da terzi.
Mentre io cercavo di rendere i suoi fantasmi tangibili, ed eventualmente facili da sconfiggere, altri la credevano pazza.

Durante un pranzo domenicale, accadde ciò che temevo.
Una professionista, che da tempo lavorava nella Onlus “Amici di Nico” ( Matino – Lecce) , si avvicinò a Daniel per giocare.
Lo fissò come si scruta uno scrigno chiuso, ma ricoperto di diamanti scintillanti.
Prese da parte mia sorella, e chiese un paio di cose sul bambino.
Seppur con le dovute cautele, spiegò ad Anna che i comportamenti stereotipati di Daniel, e la mancanza di contatto visivo in primis, potevano avere un solo possibile nome: Spettro autistico.
Ad Anna cominciò a girare vorticosamente il mondo. Ogni singolo dubbio, paura o ansia, si era palesata in tutta la sua pesantezza.
Ci fù consigliata una visita urgente presso un noto Neuropsichiatra infantile di Lecce, il Dottor Angelo Massagli.
Mia sorella mi chiamò in tarda serata, con una voce rotta dalle lacrime, chiedendomi se ero disposto ad accompagnarla.
Non esitai a dirle si, stringendo tra le mani la speranza che nulla di ciò che temevo potesse riguardare colui che a tutti gli effetti era un figlio, prima che nipote.

 

 FINE PRIMA PARTE  

 

 

"I know that the spades are the swords of a soldier
I know that the clubs are weapons of war
I know that diamonds mean money for this art
But that's not the shape of my heart"




 

 


 

Un sentimento chiamato "Neve"

 



Si dice che "L'attesa del piacere è essa stessa il piacere".
In inglese "To await a pleasure, is itself a pleasure".

Da bambino , ogni santo inverno, cercavo trepidante notizie su una possibile nevicata.
Io, infante del profondo Sud (Alezio;Lecce;Puglia) che praticamente aspettava le calende greche.
O almeno così credevo.
Sono nato nel Dicembre del 1986, e la mia prima nevicata ( da che ho memoria ) è datata 9 Dicembre 1991.
Anche se sembrerà strano, la ricordo benissimo.
Io dietro la finestra della porta di casa, a guardare la neve scendere copiosa.
Ai tempi abitavo con i miei in Via Municipio, una strada del centro storico di Alezio , con alla fine un lungo arco in pietra.
La discesa/salita si imbiancò velocemente, facendo si che ogni cosa risultasse assolutamente candida.
Ero così felice che rimasi a guardare senza proferire parola.
Nel mentre mio padre accese il fuoco, e il profumo di polpette e carne al sugo si propagò per tutta la casa.
La cornice perfetta.

La seconda nevicata invece è molto più nitida, nei ricordi.
Avvenne ben 10 anni più tardi.
Ero al primo anno delle superiori, e frequentavo l'istituto alberghiero di Santa Cesarea Terme.
Per andare a scuola dovevo prendere ogni giorno un autobus, farmi 48 km e passare dal versante Jonico a quello Adriatico in circa un'ora di viaggio.
Quella nevicata impedì qualsiasi spostamento, e le scuole furono chiuse per 3 giorni. In molti scelsero di saltare l'ultimo giorno di scuola , il 22 Dicembre, e passare direttamente in modalità "Vacanze di Natale".
Cominciò a nevicare nel primo pomeriggio di Lunedì 17 Dicembre 2001, andando avanti per tutta la notte.
Il mattino dopo  mi svegliai con il pensiero.
Erano le cinque e mezzo del mattino. Mia madre era solita svegliarsi a quell'ora.
Andammo insieme nel giardino di casa nostra, che dava su una delle strade principali di Alezio, Via Roma.
Raccolsi insieme a lei le uova che le Galline avevano fatto, e dopo averle portate in casa chiesi a mia madre il permesso di godermi tutta quella neve da solo.
Sapevo che quel manto bianco sarebbe diventato di dominio pubblico da li a breve.
Egoisticamente volevo godermelo da solo.
Mia madre ,stranamente, mi diede il permesso.
Mi ritrovai a giocare da solo, in silenzio, su Via Roma.
Mentra la città ancora dormiva, io ero lì, a tastare con mano quella felicità bianca e fredda.
Più tardi rientrai per fare colazione , e successivamente con mia sorella tornai in strada a giocare.
Lei aveva 8 anni. Fu la sua prima volta con la Neve.
Nel cortile di un'amica di famiglia, facemmo un pupazzo di neve insieme alla figlia della nostra vicina , Lucia.
Fu qualcosa di magico.



L'attesa della neve ,dal 2001 in poi , si fece assai snervante.
Non c'erano mai notizie positive, in tal senso. Le possibili nevicate si riducevano ad un paio di fiocchi senza alcun valore.
Il 2017 però cambiò le carte in tavola, "sparando" una nevicata così grande e duratura da permettere a tanti di vivere la neve come fossero in montagna.
Il 6 gennaio 2017 , sempre nel tardo pomeriggio, cominciò a nevicare in modo sostenuto.
Non abitavo più ad Alezio da ormai 5 anni.
Casa mia era Casarano, una ridente cittadina del basso salento, situata a circa 110 metri sopra il livello del mare, e molto più nell'entroterra rispetto ad Alezio.
Quella nevicata fu epocale.
Il mio terrazzo aveva accumulato non so quanti cm di neve.
Allo stesso modo del 2001, mi svegliai con il pensiero.
Mi vestì, e girai il centro di Casarano completamente da solo. Nevicava ancora ed erano le 6 del mattino.
Il suono era così ovattato che rendeva l'atmosfera irreale quanto unica.

Da Palazzo dei Domenicali alla colonna di San Giovanni, tutto era spettacolare.
E l'emozione incontenibile, così come lo era nel 1991 e nel 2001.


Può un fenomeno metereologico  naturale  scatenare tutte queste emozioni?
Probabilmente , se non si è abituati a vederlo, si.
La neve , in noi bambini del sud , ha sempre fatto questo effetto.
Eravamo abitauti a vederla in tv , nei tg, nei film come "Mamma ho Perso L'aereo" o in quelli prettamente natalizi.
Vederla per davvero, specialmente sotto le festevità Natalizie, era motivo di gioia e stupore.
Sensazioni così genuine e naturali da essere impresse a fuoco nei ricordi.

L'attesa della neve , negli anni, è diventata una vera e propria emozione.
Un'emozione capace di farmi battere il cuore, nonostante i miei 34.
E nonostante io viva a Torino da ormai quasi 4 anni, vederla mi dona lo stesso effetto di quando ero in Via Municipio : semplice e innocente stupore.


Perché quello che sono l'ho imparato da te
Tu che sei la risposta senza chiedere niente
Per le luci che hai acceso a incendiare l'inverno
Per avermi insegnato a cadere
Come neve (neve)







venerdì 12 febbraio 2021

Quel 10% di cinismo che ti salva

 


In qualsiasi rapporto personale, che sia amore o amicizia, le delusioni rappresentano quel momento fisiologico che si palesa senza alcun preavviso.
Che siano grandi o piccole, quando arrivano , le delusioni sono capaci di scatenare un putiferio tale da far impallidire qualsiasi catastrofe naturale.
Il senso di smarrimento, la paura. E potrei continuare all'infinito.
In quel preciso istante siamo attraversati da così tante emozioni che ogni qualsiasi freno inibitorio va a farsi benedire.
Diceva bene mia nonna : "Non promettere quando sei felice, non parlare quando sei arrabbiato".
La rabbia,derivata da una delusione, è così intensa da costringerci a tirar fuori il peggio di noi.
Essere coinvolti sentimentalmente aggrava ancora di più questi momenti, ponendo le basi per una frattura insanabile.
Esiste un modo per poter affrontare simili situazioni in modo totalmente maturo e senza conseguenze?
In modo maturo sicuramente, senza conseguenze purtroppo no.
Perchè se da un lato la maturità aiuta a capire il contesto, e cerca di tirar fuori una discussione quanto mai costruttiva e pacata, le conseguenze sono inevitabili.
E' impossibile arrivare ad uno scontro senza tirar fuori delle conseguenze.
Conseguenze che comunque possono essere buone , permettendo ai due soggetti di chiarire la cosa e superarla.
O cattive, lasciando strascichi a volte insanabili.
Aldilà del mero finale di un rapporto ,post delusione, come si può non soffrire per questo?
Lo sappiamo tutti : è IMPOSSIBILE!
Ciò che però possiamo cercare di fare , anticipatamente, è offrire un morbido cuscino su cui "cadere" dopo una delusione.
Di cosa parlo? Del cinismo, naturalmente.

Wikipedia riporta:

"In altro senso, il cinismo è inteso come freddezza e mancanza di morale, viene anche usato per descrivere un carattere negativo e calcolatore..."

Quindi? Vi sto consigliando di essere "Cinici" nel vero senso della parola?
Di fregarvene degli altri, di non aspettarvi mai nulla di buono, di non investire completamente in un rapporto?
No, ovviamente.
Perchè vi consiglierei di essere anche dei pessimisti, e tutto voglio comunicare fuorchè pessimismo e/o consigli deleteri.
Per essere più precisi, il dizionario riporta "Indifferente ai sentimenti e alla morale comune; privo di sensibilità".
Eccolo il cuscino , quindi.
In amore , così come in amicizia, siamo sempre pronti a donare il 100% di noi stessi, prendendo poi il 100% delle bastoste.
Negli ultimi dieci anni invece , ho scoperto sulla mia pelle che la suddivisione di tale percentuale va dosata per bene.
Come tanti, anche io ho sofferto per le più svariate delusioni. L'ex fidanzato, l'amico che mi voltò le spalle. Praticamente potrei scrivere un libro.
Da queste esperienze , in passato, ne uscivo letteralmente con le ossa rotte. Questo perchè donavo il 100% di me stesso a persone che , approfittandone, hanno poi capito come darmi il ben servito.
Ho deluso anche io, probabilmente. Perchè nessuno è esente da difetti, e in simili situazioni le presunte colpe sono sempre nel mezzo.
Comunque , da simili esperienze ho imparato quella che ormai consiglio sempre a chiunque:
LA REGOLA DEL 10%!

Sembra banale , a parlarne così, ma tale "regola" mi ha salvato in molteplici situazioni.
In qualsiasi rapporto, invece di donare se stessi al 100%, si effettua una leggera partizione del tutto.
Il 90%  lo si dona come sempre si è fatto, mentre il restate 10% lo si lascia come garanzia.
Infatti è quel 10% che ti salverà in caso di caduta. Quel 10% che si chiama "CINISMO".
Che a vederlo così sembra banale, ma pensandoci bene porta quella dose di maturità necessaria a capire e passare oltre.
Subendo una determinata situazione in modo cinico, si ha la possibilità di uscirne (il più delle volte) in modo completamente "pulito".
Essere cinici, in quella determinata percentuale , significa calcolare il rischio ed essere sempre pronti alla caduta.
Si ritorna al pessimismo quindi? Assolutamente no.
Si è pessimisti se appena cominciata una relazione , già si pensa a "se" o "come" finirà.
Il 10% di cinismo serve semplicemente a mettere da parte un paracadute, da indossare solo nel momento in cui l'aereo sta per schiantarsi.
Perchè non c'è nessun motivo per non essere pronti a tutto.
E molto più semplicemente, vive meglio chi conserva una piccola quantità di cinismo per se , che chi continua a vivere come fosse in "qualcosa di eterno".

Alla fine i rapporti sono come un profumo per ambienti: o hai la ricarica, o lo togli dalla presa e lo riponi in un cassetto.

 
"I've always been in love with you (Always with you)
I guess you've always known it's true (You know it's true)
You took my love for granted, why oh why
The show is over, say good-bye
Say good-bye (Bye bye), say good-bye"
 
 
 

 
 
 





L'intercapedine del mio destino

L'anima è l'essenza modellabile che governa il cuore. E' così che vedo il mio essere. Forgiato dall'esperienza, dagli errori...