PRIMA PARTE CLICCA QUI
SECONDA PARTE CLICCA QUI
TERZA PARTE CLICCA QUI
Si susseguirono i compleanni, le stagioni.
Daniel cambiò fisicamente, diventando un piccolo ometto.
I risultati della terapia furono lenti e costanti, con passi in avanti consistenti.
Il centro “Amici di Nico” era situato, all’epoca, nella parte alta di Matino,
un piccolo comune in provincia di Lecce.
Mia sorella era con i miei ad Alezio, circa 15 km di distanza. Io invece abitavo
già a Casarano, a soli 2 km da Matino.
Ci alternavamo nei turni, cercando di sincronizzare tutto tra lavoro, asilo e
centro.
Se io lo prendevo e lo portavo al centro, mia sorella lo prendeva e lo
riportava all’asilo comunale.
Insomma, era una maratona abbastanza estenuante, ma dovuta.
Si arriva a fine settimana distrutti, ma soddisfatti.
Mia sorella lavora nello stesso luogo dove un tempo lavoravo anche io. Un call
center che ci ha permesso di sviluppare noi stessi sia professionalmente che
economicamente.
Una mattina mi chiamò prima del mio turno, dicendomi che aveva lasciato Daniel
a casa con la febbre.
Ma nulla di che, perché c’era nostra madre insieme a lui.
Quel giorno vidi arrivare mia sorella a lavoro, e dopo nemmeno un’ora andò via.
Credevo avesse preso permessi per stare vicino al bambino.
Quindi evitai di chiamarla per sincerarmi della situazione, conscio che l’avrei
fatto comunque dopo.
Erano le 11.30.
Sul display del mio smartwatch “Anna” campeggiava luminoso. Evitai di
rispondere.
A lavoro gli smartphone erano vietati.
La chiamata si interruppe, e dopo poco ricominciò.
Lasciai correre di nuovo, anche perché la mia pausa era vicina. Quindi l’avrei
richiamata.
Di nuovo una chiamata.
Lasciai ciò che stavo facendo, avvisai il mio TL e corsi verso l’ala della sala
adibita alle pause.
Risposi che ero già in ansia, data l'insistenza.
Dall’altro lato del telefono c’era mia sorella in lacrime.
“Daniel ha quasi 40 di febbre Gabri, non scende e voglio portarlo in ospedale”.
Il mio TL da lontano mi scrutò come se avesse avuto un presentimento.
Mi avvicinai con già le lacrime agli occhi, dicendole ciò che mi aveva riferito mia sorella.
Mi approvò immediatamente dei permessi, raccomandandomi
di fare attenzione per strada.
Dalla Zona Industriale di Casarano ad Alezio in meno di 20 minuti , nell’orario
di punta.
Arrivai da mia madre, e vidi una situazione che non avevo mai visto.
Entrambe nel panico, Daniel in un pianto ormai sfiancato e praticamente senza
forze.
Quando entrai in casa mia sorella esplose in lacrime.
Decidemmo di portarlo subito in ospedale a Casarano, nonostante ci fosse
Gallipoli vicino.
Casarano però sarebbe stato ottimo per noi, perché abitavo a nemmeno 500 metri
dall’ospedale.
E data la vicinanza, casa mia sarebbe stata la base migliore per assistere sia
lui che mia sorella.
Andammo con due auto, e mentre lei si fece aiutare da mia madre ,caricando i
vestiti necessari qualora lo avessero ricoverato, io mi avviai in macchina con
lui.
Era seduto senza forze sul sedile del passeggero.
Spensi lo stereo e allacciai le cinture ad entrambi.
Fece una smorfia di
fastidio, ma non ebbe nemmeno la forza di ribellarsi come faceva di solito.
Mi guardò fisso negli occhi come mai aveva fatto.
Mi misi a piangere. Intuì chiaramente una richiesta d’aiuto.
Mi chinai per baciarlo sulla fronte, e mi accorsi in quel momento che la temperatura
stava realmente salendo come in una pentola a pressione.
Nel cammino verso Casarano, emetteva gridolini senza forza, e ogni volta era un
pugno nello stomaco.
Continuavo a piangere come un bambino.
Gli tenni stretta la mano per tutto il tragitto, e lui ricambiava la stretta
come mai aveva fatto prima di quel momento.
In genere mi teneva la mano quando andavamo a passeggio, ma dopo poco la sfilava per correre.
Quella volta invece fu diverso.
Arrivammo in ospedale, e parcheggiai subito dietro il pronto soccorso,
lasciando libero il passaggio.
Dietro di me mia sorella.
Al triage cominciarono con le domande di rito.
“Il bambino indica dove gli fa male?”
Mia sorella mi guardò, e poi rivolgendosi alla ragazza del triage esclamò “E’
autistico, non parla”.
Ci fissò , aprì subito il portellone che divideva la sala d'attesa dal pronto soccorso, e chiamò subito in pediatria per avvertire.
Fece salire subito me con lui mentre mia sorella attese qualche secondo per la compilazione dei dati.
In pediatria aprirono subito, e mi accomodai con lui in braccio.
Arrivò un’infermiera con il termometro.
Un termometro classico, non elettronico.
Non appena lo posi sotto la sua ascella , Daniel esplose in un pianto incontrollato,
ma senza opporsi fisicamente.
Appena pochi secondi dopo si calmò, e dopo averlo tolto si addormentò.
Erano ancora 39.8, praticamente un febbrone per un bambino della sua età.
Si appisolò tra le mie braccia, stringendomi a lui come qualcuno quando vuole
sentirsi al sicuro.
L’infermiera mi portò una coperta, che mia sorella sistemò su di me, in modo da
coprirlo senza infastidirlo.
Fu la prima volta , post diagnosi, in cui ci confrontammo con il problema vero
e proprio.
Non sentirlo parlare era una vera e propria
limitazione, in tutti i sensi.
Specie in casi come questi.
Quando sta male è difficile capire dove ha realmente dolore.
Negli anni ha sviluppato autonomamente il modo in cui farsi capire.
Magari toccandosi la parte interessata , ma mai su richiesta.
Un bambino autistico va capito, interpretato.
Daniel è una sfida, per noi e per se stesso.
Quindi pensateci, quando vi ritroverete a sminuire i problemi altrui.
L’autismo non è una condizione facile da affrontare. Ne per chi ne soffre, ne
per chi ci vive.
FINE QUARTA PARTE
Nessun commento:
Posta un commento