martedì 4 maggio 2021

Silenzio Autistico (Quinta Parte)

 


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Se ci fosse un modo, per descrivere gli sguardi di un padre, probabilmente lo avrei già fatto.

Ma non ho mai trovato le parole giuste.
Fissai Marco , quando tornammo a casa. Anna gli disse tutto in lacrime.
I suoi occhi sembravano persi in un mare in tempesta. La stessa tempesta che imperversava fuori.
Ogni tanto cercava il mio sguardo, come a sentirsi dire “No, sta esagerando”.
Si sedette, lentamente.
E mentre Anna gli spiegava ogni cosa, lui fissava Daniel intento a giocare.
Probabilmente stava pensando le mie stesse cose.
Lui, un anno più grande di mia sorella. Ritrovatosi padre e marito in “tenera” età.
Travolto da un destino beffardo, e da qualcosa che difficilmente si assimila.
Dopo aver finito di raccontare tutto, Anna si mise a preparare la cena.
Lo vidi alzarsi di scatto e andare via, sbattendo la porta di casa.
Fermai mia sorella, che era già pronta a corrergli dietro.
No, ognuno reagisce a modo suo. Lascia stare, Anna.”
Marco è sempre stato un ragazzo molto calmo, educato.
Quando lo conobbi era appena 17 enne. Un ragazzo biondo, occhi chiari e già abbastanza alto.
Entrò per la prima volta , nella mia cameretta, insieme a mia sorella.
Imbarazzato, impacciato e rosso come un peperone.
Gli sorrisi, stringendogli la mano come si fa con una persona che già a pelle ti è simpatica.
Quasi subito tornai a giocare sulla mia fida Playstation 2 , mentre lui e mia sorella andarono a fare un giro in casa.
Ci pensai tanto quella sera.
E quando andò via, aprì la porta della camera di mia sorella esclamando “Finalmente te n’hai truatu unu bellu, LMT”* (*Finalmente ne hai trovato uno carino).
Lei sorrise, dicendo semplicemente “Speriamo Gabri”.
Uscì dalla stanza socchiudendo la porta , e tornai in camera mia.
In cuor mio speravo che quella “bambina” di 16 anni potesse trovare qualcuno da poter amare in modo immenso e stupefacente.
E’ ciò che alla fine si aspettano tutti, per coloro che amano.
Nel 2012 si sposarono, pochi mesi prima della nascita di Daniel.
Un matrimonio civile semplice e pieno di sorrisi.
Lei aveva un vestito che la faceva sembrare una venere paleolitica, lui elegante e impacciato.
Entrambi erano un chiaro esempio d’amore, un qualcosa che ancora oggi difficilmente potrei trovare altrove.

Marco si destabilizzò , dopo quella notizia.
Dovette resettare se stesso, ricominciando a idealizzare Daniel diversamente.
Alla fine , tutti noi ci ritroviamo a idealizzare  qualcosa o qualcuno, magari sulla base delle nostre passioni.
Sbagliando si idealizzano anche i figli, imponendo molto spesso cose che sono state nostre ambizioni mai effettivamente espresse, per un motivo o per l’altro.
Ho dovuto spiegare, passo dopo passo, anche a lui come muoversi in  quel contesto.
La diagnosi di Daniel trasformò Marco.
Cambiò la visione della realtà, della vita.
Come fu per mia sorella, anche per lui la cruda realtà bruciò ulteriormente alcune tappe.
Negli anni, entrambi hanno affrontato tempeste e mareggiate terribili.
L’età, le situazioni e il complesso status di Daniel, hanno più volte creato fratture.
Fratture sanate dal tempo, e dalla maturazione di entrambi.
Non ho mai giudicato il loro malessere. Ho sempre evitato di immettermi nel pieno delle loro discussioni, perché non c’era una posizione assolutamente giusta o sbagliata.
Erano pur sempre dei ragazzi, messi di fronte a qualcosa che avrebbe scosso e tormentato la coppia più “navigata”.
Daniel ha sempre visto in marco una figura genitoriale autorevole.
La sua prima parola, comprensibile e di senso compiuto, fu proprio Papà.
Quel “Papà” detto a Marco aveva un valore immenso.
Detta da un bambino che non parla, sembrò come un raggio di sole in mezzo ad un temporale.
Negli anni, proprio grazie alla tenacia di Marco arrivarono ulteriori risultati importanti.
Non per ultimo quello che più ci ha fatti piangere.

Mia sorella si accorse che Daniel aveva il controllo degli sfinteri.
Senza pannolino, riusciva a trattenere i suoi bisogni fisiologici.
Gli sembrò un buon punto di partenza, anche se l’età era clinicamente “avanzata”.
Aveva 6 anni, e le terapiste dicevano fosse ormai troppo tardi.
“Daniel non toglierà mai il pannolino”
Questo non era un problema estetico, per noi.
Non avevamo paura che qualcuno potesse dire qualcosa, sulla presenza del pannolino.
Negli anni però Daniel ci aveva stupiti in tante cose.
La parola, anche se utilizzata in un modo personalizzato ed estremamente sintetico.
Operazioni semplici su comando, come “prendi le scarpe” “mettiamo i pantaloni” “prendi il bicchiere”.
Il fatto che Daniel non potesse togliere il pannolino, anche solo durante le sessioni a scuola o al centro in cui tutt’ora si reca, ci sembrava assurdo.
Marco, nel pieno dell’estate 2019, tolse il pannolino a Daniel.
Questo inizialmente non rappresentava mai un problema, perché a lui piaceva essere più libero.
Tutto tranquillo tranne quando arrivava lo stimolo.
In quel caso si disperava, piangeva tantissimo.
L’idea di sporcarsi è sempre stato qualcosa da evitare, per lui.
Mio cognato , nel pieno di questa “Crisi” da pannolino, lo prese e  lo portò al bagno.
Lo sedette comodo e si mise di fronte a lui.
Daniel fece per alzarsi, ma lui lo “forzò” delicatamente  a restare seduto.
Mio cognato si prese di tutto, quella mattina.
Daniel tirò a suo padre una marea di schiaffi, lo graffiò in pieno volto e sulle braccia.
Marco in quel momento era un soldato che delicatamente stava solo facendo il bene di suo figlio.
Nonostante le urla, i pianti, gli schiaffi e i graffi.
Dopo circa un’ora e mezza, Daniel fece pipì, ormai stremato.
Si azzittì di colpo, e guardò Marco come a dire “Cosa sto facendo?”.
Da quella famosa (quanto sofferta) pipì, Daniel imparò ad utilizzare correttamente i servizi igienici, e ad evitare il pannolino per quanto possibile.
Ovvio, ha bisogno di assistenza quando si reca in bagno.
Nonostante tutto però, Daniel è quasi sempre senza pannolino.
Ci sono ancora quelle situazioni che lo richiedono, ma Daniel il pannolino è riuscito a limitarlo.
E questo nonostante le visioni pessimistiche.
Marco mi confessò di voler provare a toglierlo del tutto, ma con i tempi giusti.
Quando me lo dissero, piansi.
Come per qualsiasi progresso, anche questo era una vittoria immensa.

Marco è un uomo complesso, all’apparenza chiuso e poco incline a dare confidenza.
La vita ha “calcificato” la sua corazza, ora in grado di attutire i colpi più potenti.
Per suo figlio si è sempre fatto in quattro, e come qualsiasi padre ha lottato affinché non subisse alcun tipo di discriminazione.
Si, perché anche se potrebbe non sembrare così, anche noi abbiamo vissuto discriminazioni velate su Daniel.
Discriminazioni all’apparenza stupide, ma terribilmente dilanianti.
In tanti ambiti e situazioni è mancata quell’inclusione che tanti vanno decantando.
Perché alla fine c’è sempre qualcuno che , di fronte a legittime richieste, ti risponde dandoti della ”vittima”.
Marco ha rinforzato la corazza, per poter attutire i colpi e rispondere sempre punto su punto.
Marco è quel porto sicuro in cui attraccare. Il porto in cui essere cullati dolcemente, mentre fuori imperversa la tempesta.
Marco e Daniel si somigliano tantissimo. E nonostante tutte le difficoltà, come solo un buon padre sa fare, Marco continua ad irradiare il mondo di Daniel in modo unico.
E sono sicuro, che se solo potesse parlare un po' di più, gli direbbe molto semplicemente
“Sono orgoglioso di te, papà”.

domenica 2 maggio 2021

Silenzio Autistico (Quarta Parte)

 


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Si susseguirono i compleanni, le stagioni.

Daniel cambiò fisicamente, diventando un piccolo ometto.
I risultati della terapia furono lenti e costanti, con passi in avanti consistenti.
Il centro “Amici di Nico” era situato, all’epoca, nella parte alta di Matino, un piccolo comune in provincia di Lecce.
Mia sorella era con i miei ad Alezio, circa 15 km di distanza. Io invece abitavo già a Casarano, a soli 2 km da Matino.
Ci alternavamo nei turni, cercando di sincronizzare tutto tra lavoro, asilo e centro.
Se io lo prendevo e lo portavo al centro, mia sorella lo prendeva e lo riportava all’asilo comunale.
Insomma, era una maratona abbastanza estenuante, ma dovuta.
Si arriva a fine settimana distrutti, ma soddisfatti.
Mia sorella lavora nello stesso luogo dove un tempo lavoravo anche io. Un call center che ci ha permesso di sviluppare noi stessi sia professionalmente che economicamente.
Una mattina mi chiamò prima del mio turno, dicendomi che aveva lasciato Daniel a casa con la febbre.
Ma nulla di che, perché c’era nostra madre insieme a lui.
Quel giorno vidi arrivare mia sorella a lavoro, e dopo nemmeno un’ora andò via.
Credevo avesse preso permessi per stare vicino al bambino.
Quindi evitai di chiamarla per sincerarmi della situazione, conscio che l’avrei fatto comunque dopo.
Erano le 11.30.
Sul display del mio smartwatch “Anna” campeggiava luminoso. Evitai di rispondere.
A lavoro gli smartphone erano vietati.
La chiamata si interruppe, e dopo poco ricominciò.
Lasciai correre di nuovo, anche perché la mia pausa era vicina. Quindi l’avrei richiamata.
Di nuovo una chiamata.
Lasciai ciò che stavo facendo, avvisai il mio TL e corsi verso l’ala della sala adibita alle pause.

Risposi che ero già in ansia, data l'insistenza.
Dall’altro lato del telefono c’era mia sorella in lacrime.

“Daniel ha quasi 40 di febbre Gabri, non scende e voglio portarlo in ospedale”.


Il mio TL da lontano mi scrutò come se avesse avuto un presentimento.
Mi avvicinai con già le lacrime agli occhi, dicendole ciò che mi aveva riferito mia sorella.
Mi approvò immediatamente dei permessi,  raccomandandomi di fare attenzione per strada.
Dalla Zona Industriale di Casarano ad Alezio in meno di 20 minuti , nell’orario di punta.
Arrivai da mia madre, e vidi una situazione che non avevo mai visto.
Entrambe nel panico, Daniel in un pianto ormai sfiancato e praticamente senza forze.
Quando entrai in casa mia sorella esplose in lacrime.
Decidemmo di portarlo subito in ospedale a Casarano, nonostante ci fosse Gallipoli vicino.
Casarano però sarebbe stato ottimo per noi, perché abitavo a nemmeno 500 metri dall’ospedale.
E data la vicinanza, casa  mia sarebbe stata la base migliore per assistere sia lui che mia sorella.
Andammo con due auto, e mentre lei si fece aiutare da mia madre ,caricando  i vestiti necessari qualora lo avessero ricoverato, io mi avviai in macchina con lui.
Era seduto senza forze sul sedile del passeggero.
Spensi lo stereo e allacciai le cinture ad entrambi.
Fece una smorfia di fastidio, ma non ebbe nemmeno la forza di ribellarsi come faceva di solito.
Mi guardò fisso  negli occhi come mai aveva fatto.
Mi misi a piangere. Intuì chiaramente una richiesta d’aiuto.
Mi chinai per baciarlo sulla fronte, e mi accorsi in quel momento che la temperatura stava realmente salendo come in una pentola a pressione.
Nel cammino verso Casarano, emetteva gridolini senza forza, e ogni volta era un pugno nello stomaco.
Continuavo a piangere come un bambino.
Gli tenni stretta la mano per tutto il tragitto, e lui ricambiava la stretta come mai aveva fatto prima di quel momento.
In genere mi teneva la mano quando andavamo a passeggio, ma dopo poco la sfilava per correre.
Quella volta invece fu diverso.
Arrivammo in ospedale, e parcheggiai subito dietro il pronto soccorso, lasciando libero il passaggio.
Dietro di me mia sorella.
Al triage cominciarono con le domande di rito.
Il bambino indica dove gli fa male?
Mia sorella mi guardò, e poi rivolgendosi alla ragazza del triage esclamò “E’ autistico, non parla”.
Ci fissò , aprì subito il portellone che divideva la sala d'attesa dal pronto soccorso, e chiamò subito in pediatria per avvertire.
 Fece salire subito me  con lui mentre mia sorella attese qualche secondo per la compilazione dei dati.
In pediatria aprirono subito, e mi accomodai con lui in braccio.
Arrivò un’infermiera con il termometro.
Un termometro classico, non elettronico.
Non appena lo posi  sotto la sua ascella , Daniel esplose in un pianto incontrollato, ma senza opporsi fisicamente.
Appena pochi secondi dopo si calmò, e dopo averlo tolto si addormentò.
Erano ancora 39.8, praticamente un febbrone per un bambino della sua età.
Si appisolò tra le mie braccia, stringendomi a lui come qualcuno quando vuole sentirsi al sicuro.
L’infermiera mi portò una coperta, che mia sorella sistemò su di me, in modo da coprirlo senza infastidirlo.
Fu la prima volta , post diagnosi, in cui ci confrontammo con il problema vero e proprio.
Non sentirlo parlare era una vera e propria limitazione, in tutti i sensi.
Specie in casi come questi.
Quando sta male è difficile capire dove ha realmente dolore.
Negli anni ha sviluppato autonomamente il modo in cui farsi capire.
Magari toccandosi la parte interessata , ma mai su richiesta.
Un bambino autistico va capito, interpretato.
Daniel è una sfida, per noi e per se stesso.
Quindi pensateci, quando vi ritroverete a sminuire i problemi altrui.
L’autismo non è una condizione facile da affrontare. Ne per chi ne soffre, ne per chi ci vive.

 

FINE QUARTA PARTE



L'intercapedine del mio destino

L'anima è l'essenza modellabile che governa il cuore. E' così che vedo il mio essere. Forgiato dall'esperienza, dagli errori...