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"Ciao piccolino, come ti chiami"
Daniel era intento a guardare un peluche che si era appena
scelto.
Uno dei miei tanti regali.
"Non parla ancora?"
In quel momento avrei voluto rispondere male.
Sentivo la rabbia montare come se quella sconosciuta avesse
detto chissà quali parolacce.
Abbozzai un sorriso, rispondendo con un laconico "Non
ancora".
Tirai un sospiro profondo, mentre gli occhi erano già pronti
ad accompagnare quel nodo alla gola costante.
A lavoro svolgevo i miei compiti correttamente, ma nei miei
occhi chiunque poteva vedere l'oscurità.
Un'oscurità generata dalle incognite della vita, dalle paure
relative alla non accettazione, all'impossibilità di poter vedere uno sviluppo
ordinario di quel bambino biondo con gli occhi azzurri.
Ho sempre considerato Daniel un figlio, prima che un nipote.
Non mi sono mai voluto sostituire al suo papà, ci mancherebbe
altro.
Ho sempre cercato di essere una colonna portante, nella sua
vita. Senza invadere mai quelli che sono gli obblighi di uno zio,
ben diversi da quelli di un padre.
Però non so descrivere ciò che mi lega al mio bambino.
Se solo riguardo gli status su Facebook, mentre lo
attendevo, mi viene da piangere. Un legame così forte che ci è sempre bastato uno sguardo,
per capirci.
Lo feci sedere avanti, in auto, senza seggiolino.
Si, non è sicuro per un bambino, ma non c'era verso di farlo
stare dietro, se con con urla e pianti strazianti.
Ecco, anche quel suo non stare calmo con le cinture del
seggiolino di sicurezza, ora avevano un perché.
Se da un lato l'Autismo appariva come una nebbia fitta da
cui uscire sembrava impossibile, dall'altra il solo conoscerne il nome appariva
come un raggio di luce con cui farsi strada.
Debole, ma presente.
Se c'è una cosa che ho capito, nel tempo, è che se ad una
cosa riesci a dare un nome puoi effettivamente cominciare ad affrontarla.
Lo riportai da mia madre, preparandomi poi per il solito
turno a lavoro.
Erano le 22 circa, quando timbrai la mia uscita da lavoro.
Mentre tornavo a casa, ripensavo a tutto.
Come se la mia mente si divertisse a fare un riepilogo della
mia vita sino a quel momento, facendomi soffermare su tanti dettagli inutili.
Una sorta di auto protezione, per evitare lo stress derivato
dalla diagnosi.
Eppure, gira e rigira ero sempre lì.
Sistemai i miei cani, e dopo cena mi diressi al pc.Volevo capire un po’ di più sull'Autismo.
Volevo cominciare ad affrontarlo, e non solo a temerlo.
In appena tre giorni ero stanco delle lacrime, dei pensieri
brutti. Volevo reagire, capire.
Cominciai a guardare video su YouTube di neuropsichiatria
infantile, a leggere sul web articoli di autorevoli firme.
Mi tenni ben lontano dalle teorie bislacche dei complottisti
e dei negazionisti. Avevo bisogno di verità e soluzioni, non di complotti e favolette.
Nelle settimane successive ero già pieno di informazioni, anche se
molto basilari, sull'argomento.
Probabilmente lo avrete già capito, ma le persone che più accusarono il colpo
furono mia madre e mia sorella. Non che io volessi fare a tutti i costi il forte, ma capì subito che se crollavo io, crollavano loro due.
Erano pienamente convinte che la "colpa" risiedeva
in altro, e non ad un possibile "problema" naturale nel neuro-sviluppo.
Questa era , ed è , la domanda a cui rispondere mi provoca ogni volta un tuffo tremendo al cuore.
Tutto questo appariva come assurdo, a mia madre e mia
sorella. Loro continuavano a pensare "di pancia", mentre io
ero già oltre.
Ai loro occhi io ero "insofferente" e privo di
sentimenti.
Il mio essere dettagliato, calmo e privo di reazioni
scomposte di fronte a loro, significava essere cinico.
"Non hai un cuore, perché altrimenti capiresti che non è come dici tu".
Senza volerlo mia madre aveva appena detto ciò che volevo passasse apparentemente a loro.
Avevo messo il mio cuore in gabbia, dopo aver pianto di
nascosto.
Dopo aver versato lacrime amare immaginando una prospettiva di futuro
distrutta da quella cazzo di diagnosi.
Il mio cuore era in gabbia non per paura, ma per non farci crollare all'unisono nello sconforto e nelle tenebre.
Volevo essere la luce capace di dipanare, per quanto possibile,
quella nebbia.
Non volendo, offrì a mia madre e mia sorella un muro morbido
su cui picchiare per sfogarsi.
Una mattina di un giorno che non ricordo , arrivò una telefonata.
"Gabriele..." la voce di mia sorella era quasi rotta dal pianto.
Silenzio
"E quindi? Non sei contenta?"
"Che mio figlio sia Autistico?"
"No, che Daniel possa finalmente uscire da quella
nebbia, e farci sentire la sua voce guardandoci negli occhi"
In quel momento capì che il cuore di una mamma, per quanto forte, non sarebbe
mai stato pienamente pronto ad affrontare tutto da solo.
Io però ero lì, insieme a lei.
Ero lì con lei quell’otto Maggio del 1993.
Ero lì con lei ad affrontare la battaglia più tosta della nostra vita.
FINE TERZA PARTE